di Giampaolo Milzi
(foto di Giusy Marinelli)
In molti pregano. Pregano perché Don Mario riposi in eterno in santissima pace. Ma anche, e in modo mirato, perché la “sua” chiesa, la settecentesca chiesa di San Biagio, situata lungo l’ultimo tratto di corso Mazzini, non resti chiusa in eterno. Anno nuovo, porte sprangate, e quel colore grigiastro della sobria facciata che ora sembra venato di nero. Nero come l’umore del popolo di Don Mario Recanatini, per tutti, davvero tanti, quelli che gli volevamo bene quasi come un padre anche laico, semplicemente Don Mario. Con lui, che se ne è andato in silenzio la notte tra il 29 e il 30 dicembre scorso, all’età di 86 anni – dandoci sotto fino all’ultimo istante per prendersi cura dei suoi fedeli, amici, di chiunque bussasse alla sua porta – è morta per sempre anche San Biagio?
L’atmosfera, soprattutto tra i fedelissimi, è cupa. Regna il pessimismo sul se, come e quando questo edificio di culto che era un vero faro di fede vera, quella vissuta nelle azioni quotidiane, possa tornare a funzionare. Un pessimismo alimentato dal silenzio, dalla mancanza di dichiarazioni, ufficiali o ufficiose che possano essere, da parte della Curia. Un pessimismo poco sminuito dalle poche, generiche parole pronunciare, il giorno del funerale, al Duomo di San Ciriaco, dall’arcivescovo-cardinale Edoardo Menichelli: “Quando riaprirà San Biagio? Abbiate pazienza, dateci il tempo di organizzarci”, ha detto in sostanza dal pulpito il numero uno dell’Arcidiocesi Ancona-Osimo. Dal muro di discrezione eretto dalla Curia su quello che ormai, dopo 17 giorni, è diventato il fosco-giallo del “caso San Biagio”, l’unica voce un po’ chiara a trapelare è quella del “navigato”
Don Antonello Lazzerini, cappellano della Polizia di Stato, ad Ancona e dintorni. Il quale si lascia pregare appena, e poi dice schietto come la pensa: “Aspettiamo che l’arcivescovo venga sostituito e possa operare solo come cardinale, poi vediamo cosa succede. Fino ad allora, e penso che ci vorranno due anni, sarà molto difficile che la situazione cambi. Se proprio dovesse andare bene, in tempi più brevi, forse, la chiesa potrebbe riaprire per un paio di ore al giorno, giusto il tempo per organizzare e tenere una messa”. Insomma, è così che anche lei, anche con pessimismo, interpreta le parole dell’arcivescovo? “Non c’è nulla da interpretare, io sono realista”. Un realismo che Don Lazzerini mutua dalla sua lunga ed ampia esperienza pastorale di “cose di chiesa”: “Io ero amico di Don Mario, lo conoscevo molto bene, fin dal 1984 quando era a Numana, e tutti gli volevano un gran bene. E lo aiutavo. Come lo aiutavano altri parroci, come Don Giancarlo e Don Lorenzo, come l’ex sagrestano di San Ciriaco, Don Gabriele. Come lo aiutavano, quando potevano, i Dominicani. Anche io, quando potevo, andavo a dire messa al posto suo. So dei fedeli dispiaciuti per la chiusura della chiesa, so di un grosso giro, soprattutto di donne, alcune quasi disperate. Certo, sono il primo a cui piacerebbe che San Biagio torni ad essere quel punto di riferimento religioso che è stato per decenni per una comunità molto trasversale, ma su quando accadrà non ne ho la più pallida idea, tranne quella espressa sopra”. Che appare meno pallida, e rafforzata nella sua negatività, dalla parole, quasi profetiche, che Don Mario usava sussurare, fin dalla scorsa estate, ai fedeli più osservanti e ai suoi più stretti collaboratori, tra cui, appunto, anche e soprattutto molte donne di chiesa, laiche: “Quando io non ci sarò più, anche questa chiesa non ci sarà più”. Se non a ricordare un grande capitoletto della storia di Ancona, col suo look esterno provato dal tempo e un po’ scalcinato, austero e un po’ spiegazzato come l’abito di un nobile santo decaduto, un santo di strada.
Di strada, “on the road”, infaticabile come Don Mario. Ordinato sacerdote il 29 giugno 1957, rettore della chiesa di San Biagio dal 2007, proprio in questo 2017 avrebbe festeggiato i 60 anni di sacerdozio. Anziano d’altri tempi, una tempra e un coraggio fortissimi, è riuscito ad accogliere e a prendersi cura delle sue mille pecorelle, comprese quelle più smarrite, anche nelle confessioni, celebrando messa e funzioni quasi tutti i giorni, celebrando tutti i sacramenti. Prodigo di consigli e aiutini, fino alla fine. Una comunità trasversale, quella legatissima a Don Mario. Come ceto economico, composizione sociale. Molti commercianti del centro, della “spina dei corsi”. Alcuni anconetani vip. Ma soprattutto gente semplice, del popolo, come si diceva una volta. E tanti poveri, disperati ridotti ai margini della società. Luogo di fede e carità, luogo di indiscriminata accoglienza, la chiesa d San Biagio. Senza se e senza ma. Tanto che in più occasioni Don Mario aveva avuto problemi con alcuni frequentatori, spinti dalla disperazione all’arroganza, della vicinissima Mensa del povero di Padre Guido. C’era chi entrava all’improvviso in chiesa e l’elemosina la pretendeva, anche quando le cassette delle offerte erano vuote.
Non una parrocchia, dal punto di vista dell’organizzazione giuridico-amministrativa canonica. Una rettoria, con giurisdizione extraterritoriale, San Biagio. Una chiesa storica, prima che arrivasse Don Mario, gestita dagli Schiavoni, una confraternita di cristiani giunti dalla Dalmazia ad Ancona nella prima metà del ‘400. Paradossalmente, quasi uno svantaggio, questo importante retaggio storico, così come il ruolo strategico nella rete ecclesiastica dorica assunto dalla rettoria via via nei secoli. Confessava, e come già detto “si confessava”, Don Mario. Eh sì che non ne aveva di difficoltà, malato da tempo di diabete, coi suoi tanti acciacchi di salute, per portare avanti la pesante carretta del sacerdozio. Nonostante alcuni fedeli, ancora una volta protagoniste soprattutto le religiose, svolgevano per lui piccole commissioni, pagavano le bollette di luce, acqua e gas (ma il telefono era andato in tilt pochi giorni prima della sua morte). Ai più intimi Don Mario confessava anche che non si sentiva abbastanza aiutato dall’Arcidiocesi. Circondato di affetto e attenzioni dal basso, ma non dall’alto, insomma?
Don Antonello Lazzerini: “In realtà è già da 35 anni che la chiesa di San Biagio non rientra, in sostanza, nelle attenzioni ordinarie dell’Arcidiocesi. E con tutti i problemi che mons. Menichelli ha da fronteggiare in questi ultimi tempi nel gestire l’Arcidiocesi è difficile che riesca a riorganizzare San Biagio”.
Difficile, ma non impossibile. In controtendenza, ad alimentare la speranza, Salvatore Baglieri, operatore laico della Caritas, amico di Don Mario, tra coloro che gli davano una mano: “Aspettiamo con fiducia che cosa farà l’arcivescovo”. Si respira aria di speranza anche nel negozio di arredi sacri in corso Matteotti, vicino a Porta San Pietro, gestito da Fabrizio Papa: “San Biagio e Don Mario erano un po’ la stessa cosa. Per quella chiesa dava tutto se stesso, cercava di tenerla sempre aperta. E, poverino, così anziano com’era, aveva bisogno di aiuto. E io lo aiutavo in sacrestia, anche per riordinare le sue cose. Ora, anche se non ho avuto contatti con l’Arcidiocesi, e anche se c’è una grossa carenza di preti, di nuove vocazioni, credo che mons. Menichelli riuscirò a trovare un sostituto, questa chiesa non può assolutamente restare chiusa”. Ancora una luce, di speranza. Proprio ieri una delegazione di donne fedeli di San Biagio si è incontrata con la signora titolare della pasticceria Saracinelli, di corso Mazzini, la quale ha detto che sì, mons. Menichelli il sostituto di Don Mario lo sta cercando. Occhi puntati sull’arcivescovo-cardinale e sulla Curia, quindi. San Biagio ha un vitale bisogno di un erede all’altezza di don Mario. E anche di una bella ripulita esterna. A cominciare dalla targa-lapidea sulla facciata, quella in cui, dal 1872, Papa Pio VI concede “l’indulgenza plenaria” a chi la visita.
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