Viene licenziata dal bar dove lavora a due mesi dall’unione civile con la compagna, fa ricorso e vince. Il tribunale: “Licenziamento nullo. Deve essere reintegrata”. È questo il tenore della sentenza emessa pochi giorni fa dal giudice civile Tania De Antoniis, chiamata ad esprimersi sulla legittimità dell’allontanamento forzato di una 40enne da un bar di Trecastelli, locale dove era in servizio da quasi dieci anni prima che le venissero recapitate due lettere di licenziamento, tra il dicembre 2016 e il gennaio 2017. In autunno, la donna si era unita civilmente con la sua compagna. Stando a quanto emerso, il datore aveva spiegato il licenziamento, recapitato senza preavviso, come una necessità legata alla crisi e a un calo di lavoro avvenuto all’interno del bar. Secondo la difesa della ricorrente, rappresentata dall’avvocato Francesco Gobbi, invece all’origine del provvedimento ci sarebbero state motivazioni discriminatorie, basate sulla scelta della dipendente di unirsi con una persona del suo stesso sesso. Dunque, il licenziamento è stato impugnato “per carenza di motivazione non veritiera, per inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto, per violazione dell’obbligo di repechage, per violazione dei principi di correttezza e buona fede nella scelta della lavoratrice da licenziare”. Tutto il processo si è tenuto con il rito Fornero, abbreviando l’intera procedura.
“Nel merito – dice la sentenza, dove non si fa mai apertamente riferimento a un contesto discriminatorio – va dichiarata la nullità del licenziamento in quanto irrogato entro l’anno dall’unione civile”, contratta dalla ricorrente a ottobre 2016, dunque due mesi prima della due lettere firmate dal titolare del bar dove lavorava. All’origine della sentenza, il giudice richiama la violazione di articolo del codice delle pari opportunità che, tra le altre cose, chiama in causa la facoltà del datore di lavoro di “provare che il licenziamento è avvenuto non a causa di matrimonio, ma per una delle seguenti ipotesi: colpa grave della lavoratrice, cessazione dell’attività dell’azienda”. Due presupposti che, stando al giudice, non ci sarebbero stati nel caso della 40enne. Per questo, la barista deve essere reintegrata. Inoltre, il titolare dell’azienda dovrà versare un’indennità pari alla retribuzione globale maturata a partire dal licenziamento. Esulta l’avvocato Gobbi: “Questa sentenza ripristina una giustizia che era stata violata”. Ora, il titolare del bar potrà ricorrere in appello.
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