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Il tetto del TK61 dell’Api? Un colabrodo.
L’incidente poteva essere evitato:
gli esiti del perito giudiziario Annovi

INDAGINE - Viste le condizioni in cui versava il tappo del serbatoio, l'esercitazione non si sarebbe dovuta svolgere con quelle modalità, questi alcuni dei risultati raccolti dal tecnico nominato dal pm Irene Bilotta dopo i numerosi sopralluoghi effettuati alla raffineria

La raffineria di Falconara (foto d’archivio)

 

di Giampaolo Milzi

Era una specie di groviera il mega-tappo del serbatoio del tank dell’Api di Falconara da cui l’11 aprile scorso si è sollevata la “nuvola” di esalazioni pestilenziali e potenzialmente nocive avvertite fino a Senigallia. Esalazioni prodotte da un incidente dovuto alla forte inclinazione della struttura e alla fuoriuscita di nafta Virgin, petrolio e probabilmente materiale di risulta di lavorazioni, che poteva essere evitato. Queste da quanto emerge le prime conclusioni dei numerosi accertamenti compiuti dall’ingegnere Gabriele Annovi, grande esperto di impianti come quelli della raffineria falconarese, uno dei due periti (l’altro è il chimico Sergio Cozzuto), nominati dal pm della procura di Ancona, Irene Bilotta, titolare dell’inchiesta. Sedici le persone indagate, tra cui l’amministratore delegato, Giancarlo Cogliati, di cui 15 (molti colleghi dell’alta sfera dirigenziale) accusati di getto pericoloso di cose (esalazioni nocive e moleste sprigionate nell’aria, pregna di micro particelle chimiche di sostanze altamente tossiche come il benzene), eco-illeciti colposi, lesioni personali colpose come conseguenza degli altri reati. A uno degli indagati viene contestato anche il mancato rispetto delle norme di sicurezza.

La prevedibilità del malfunzionamento del TK61, la quasi cronica mancanza di manutenzione dello stesso, il suo utilizzo sebbene episodico per una esercitazione, la presenza nel fondo di uno strato di “morchia” (sostanze oleose e grasse classificabili come idrocarburi in parte trattati che non avrebbero dovuto esserci), la mancata adozione di misure di sicurezza – sono tutti elementi che (se confermati) – costituirebbero aggravanti degli illeciti ambientali contestati agli indagati.

Ma andiamo per ordine. Iniziando dalle modalità che hanno caratterizzato l’incidente, oggetto specifico dell’incarico affidato dal pm Bilotta ad Annovi, specialista che ben conosce l’impiantistica e i metodi operativi del petrolchimico Api per avervi già operato come consulente in passato. Da quanto emerge dalla perizia, l’11 aprile, alcuni lavoratori avevano azionato delle pompe “sparando” un’imponente quantità di acqua schiumata sul tetto della grande cisterna di circa 100 metri di diametro, un’operazione finalizzata alla produzione di una certificazione anti-incendio. L’enorme peso del liquido schiumogeno ha determinato un abbassamento laterale di ben 5 metri della copertura di chiusura galleggiante, da qui il trafilamento in superficie del prodotto ancora stoccato sul fondo e quindi l’ammorbamento e la contaminazione dell’aria in un raggio vastissimo. Dalla ricostruzione del perito, quell’operazione, con quelle modalità, non doveva essere attuata. Di più. La dirigenza Api sarebbe stata a conoscenza dei gravi “acciacchi” di cui soffriva e soffre il tetto del serbatoio: decine e decine di buchi, larghi circa 5 centimetri, con bordi e parti che sembra fossero arrugginite – emerge dalla perizia -. Da qui la decisione di coprirne alcuni con sacchi pieni di ghiaia. Un’operazione non propriamente professionale ma quasi obbligata. Perché proprio l’impropria giacenza sul fondo della cisterna di materiale infiammabile impediva la possibilità di chiudere ermeticamente le falle del tetto tramite saldature con posizionamento di piccole parti di metallo. Sta di fatto che se tutti i buchi fossero stati ben chiusi, emerge ancora dalla perizia, l’incidente non si sarebbe verificato. Invece la tettoia, a causa dei buchi, ha imbarcato la sostanza schiumogena acquosa e si è inclinata affondando parzialmente. Questa l’ipotesi sulla dinamica dell’incidente che verrebbe avanzata nella perizia. Diversi sin qui i sopralluoghi. Due di questi, il 26 ottobre e il 7 novembre, svolti come atti irripetibili in presenza dei consulenti degli indagati, quello dell’Api, quello in rappresentanza di 135 delle ben 1.030 parti lese (tra cui l’associazione “Onda Verde” di Falconara e l’esperto legale Fabio Amici, per conto dell’Associazione consumatori Marche/Acu). La perizia comunque è in corso. Già nella seconda parte della prossima settimana Annovi dovrebbe tornare in raffineria per completare alcune misurazioni. Altro punto fondamentale sarà il dissequestro della scala d’accesso al TK61. Un passaggio fondamentale affinché – dopo lunghissimi ritardi legati alle prescrizioni (compreso l’obbligo di posizionare un doppio-fondo in tutti i tank) dettate all’Api dal Ctr (comitato costituito, tra gli altri, da Direzione regionale vigili fuoco, Regione, Asur area Vasta 2, Arpam, comune di Falconara) – la cisterna venga completamente svuotata e bonificata. Solo una volta ultimata la bonifica (intervento che richiederà tra i 4 e i 6 mesi e che si potrà effettuare solo sezionando una parte del serbatoio) il perito Annovi potrà attuare il controllo più importante che gli compete: l’esame dei fori del tappo-tettoia dall’interno del tank “incriminato”. Incriminato, per dirla anche coi quasi 200 residenti di Falconara che durante quella maledetta “settimana nera” di inizio aprile, ritengono di essere stati “appestati” dalle esalazioni, comprovandolo, nell’atto di progere querela ai carabinieri del Noe per assumere il ruolo di parti offese nel procedimento penale, allegando certificati medici.



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