di Marco Benedettelli
Entrare negli appartamenti, incontrare i malati, le famiglie. A tutto questo non ci si può abituare. Ci si presenta sulle soglie di casa coperti da tute integrali, si viene accolti da sguardi di preoccupazione e angoscia. «Troviamo uomini e donne soli o coppie di coniugi anziani, nuclei familiari. Ci sono persone stese a letto col respiro affannoso e la tosse, c’è la paura di lasciare la propria stanza per partire verso un ricovero percepito come un viaggio verso l’ignoto. L’angoscia a volte si fa vibrante durante il viaggio in ambulanza». La testimonianza è di Maria Francesca Mori, 30 anni, della Croce Gialla di Ancona, una delle realtà che più si sta impegnando con determinazione e professionalità nella cura a Covid-19, nell’assistenza a quei cittadini che la malattia rende più fragili. Spiega l’operatrice Maria Francesca a Cronache Ancona: «Con le persone affette da Coronavirus c’è solo una cosa da fare: imparare, il più possibile, a parlare con gli occhi. Quando arriviamo in una casa per prestare soccorso solo con gli occhi possiamo aiutare chi abbiamo davanti. Dietro la tuta da rischio infettivo, la doppia mascherina, i doppi guanti, gli occhiali protettivi, il nostro corpo scompare e la voce sembra arrivare da lontano. Ci restano gli occhi per calmare le persone, gli sguardi, la luce dell’espressività di quel pezzo di volto». Le chiamate nell’attuale periodo di emergenza sono arrivate ad essere fino a dieci al giorno. Un servizio dura molto più a lungo rispetto al normale, i tempi sono estremamente dilatati tra vestizione delle attrezzature, trasporto in sicurezza, sterilizzazione degli ambienti. L’onda è montata da inizio marzo, i primi assistiti erano anziani, poi col passare dei giorni l’età si è abbassata e oggi arrivano in ospedale anche uomini di 40 anni, giovani di 20, persone di tutte le età. Maria Francesca Mori è entrata lo scorso anno in Croce Gialla grazie al Servizio civile, l’assunzione con un contratto di un anno è arrivata a gennaio, proprio alla vigilia dell’emergenza epidemica. «Siamo stati presi in sei, ed è un supporto importante, mi sento di dire, in un momento dove c’è da fronteggiare una situazione che richiede lucidità e nervi saldissimi».
Si lavora a regime, con grande dedizione e generosità. I giorni della settimana sono saltati ed è tutto un levarsi e rimettersi la tuta e le attrezzature protettive, più volte al giorno, ogni volta che arriva una chiamata. Prima il servizio di assistenza si faceva in due, autista e operatore. Ora il personale è salito a tre, perché chi guida non deve avere alcun contatto con le persone trasportate, così da evitare ogni contagio in abitacolo di guida. I due mezzi a disposizione della Croce Gialla per il servizio di 118 coprono circa i tre quarti delle chiamate sulla città di Ancona. Ora è disponibile anche il trasporto di ambulanza veterinaria per i quadrupedi di quei padroni che non si possono muovere di casa perché in isolamento domiciliare obbligatorio. C’è poi l’assillo delle mascherine, anche fra il personale delle ambulanze se ne patisce la penuria e quelle a disposizione sono frutto di donazioni private. Preziosissimo, per esempio, è stata l’elargizione di materiale di protezione individuale da parte della Ferramenta Moroni. «In principio ci proteggevamo solo quando dalla centrale operativa ci arrivava un avviso di sospetto Covid-19. Ora non più, ora indossiamo tutta l’attrezzatura ad ogni intervento. Il contagio è così diffuso che possono essere tutti positivi, anche chi chiama per problemi che nulla hanno a che fare con la sintomatologia tipica – spiega la giovane operatrice -. Sono giorni senza tregua. Nelle ore di massima pressione, quando il caos era forte, ho visto il reparto di pronto intervento Covid pieno all’inverosimile, con pazienti seduti in attesa di ricovero appena fuori dalla “zona calda”, quella dove in ospedale è accolta l’ambulanza. Ora le cose vanno meglio». Durante le notti, mentre il personale medico gira infaticabile con addosso le tute protettive senza fermasi un attimo, in una tensione lavorativa che ha dell’incredibile, fuori dall’ospedale regionale di Torrette il silenzio lascia sgomenti. «Qualche sera fa mi sono affacciata sul parcheggio. C’era solo un giovane con la mascherina che non smetteva di piangere. È arrivato il padre a convincerlo a salire in macchina e a consolarlo. Chissà, forse quei due soffrivano di preoccupazione per la mamma ricoverata – ricorda Maria Francesca –. Durante i miei servizi ho accompagnato signori per le scale di casa che scendevano con le proprie gambe. Qualche giorno dopo quegli stessi, che sembravano in buone condizioni, sono finiti in terapia intensiva. Mi domando ora come stiano, questo è un virus imprevedibile. Penso tanto ad ognuno di loro, il desiderio è di incontrarli presto per strada e sorriderci, senza più quella tuta protettiva che mi nasconde. Chissà se mi riconosceranno».
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