Postare su facebook e Instagram contenuti contro l’esercito russo che ha invaso l’Ucraina in alcuni paesi si può. E’ la scelta fatta da Meta, azienda che fa capo a Mark Zuckeberg, proprietaria dei siti. I post che incitano all’uccisione degli invasori e i loro capi saranno permessi in Armenia, Azerbaigian, Estonia, Georgia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Russia, Slovacchia e Ucraina. Lo afferma Reuters, attraverso una serie di documenti diffusi nelle ultime ore.
Un cambio di strategia che ha fatto molto discutere e che deve far riflettere secondo Giacomo Buoncompagni, ricercatore Lumsa, docente di Antropologia culturale UniMc e Presidente Aiart Macerata.
di Giacomo Buoncompagni
Anni di discussioni, di invito al pensiero critico, di incontri formativi, di tentativi al fine di riequilibrare il pregiudizio algoritmico. Mesi di progettazione di nuove politiche digitali e di percorsi educativi mediali.
Tutto inutile?
Sembrerebbe di si, perché se le istituzioni politiche e giuridiche investono tempo e denaro per creare una atmosfera comunicativa più sobria e costruttiva nei social network, cosi come le scuole, le università e le associazioni locali provano a proporre percorsi di media education, e poi improvvisamente i responsabili delle piattaforme digitali più “abitate” del mondo decidono che insultare online e creare appositamente una politica dell’odio senza confini, con target personalizzati, può essere una pratica quotidiana senza conseguenze, come minimo si rimane non solo senza parole, ma ogni tentativo di educare alla buona comunicazione e al punto di vista dell’Altro va in fumo.
La guerra in Ucraina ha polarizzato ancora di più le tribù digitali, già presenti online in maniera massiccia durante la pandemia, e ha portato molti degli utenti connessi a scalare a velocità diverse la priamide dell’odio, scendendo con un salto netto da quella della consapevolezza mediale, rimanendo imprigionati nelle logiche della Rete.
«A seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, abbiamo temporaneamente concesso forme di espressione politica che normalmente violerebbero le nostre regole, tra cui discorsi violenti come “morte agli invasori russi”. Continueremo a non consentire appelli credibili alla violenza contro i civili russi», si legge nel comunicato diffuso dalla società Meta (Facebook) ieri.
Dopo anni di discussione sulla regolamentazione anti-fake e contro i discorsi d’odio, con preoccupante nonchalance, un grande gatekeeper dell’informazione mondiale decide di cambiare le regole che riguardano uno degli aspetti più delicati della sua autoregolazione, quello inerente all’eliminazione della violenza e di ogni forma di discriminazione online, a tutela delle cyber-vittime.
Di fatto è come se tutti noi fossimo per un periodo di tempo ben educati al rispetto in famiglia e a scuola, e il resto del tempo frequentassimo un luogo specifico, molto vicino a casa nostra, dove invece tutto è permesso: insultarsi, sfogarsi, fare violenza fisica e psicologica, individuare le nostre vittime trasformandole in piccoli trofei quotidiani, senza correre nessun tipo di rischio o senza andare incontro a particolari sanzioni.
Poco importa se Meta “ha fatto bene” o “ha fatto male”, o se l’algoritmo riconosce, per sempre o temporaneamente, la violenza verbale solo se diretta a Putin, ai suoi soldati o ad una parte della cittadinanza russa.
L’odio rimane odio.
E le regole discusse e approvate sull’hate speech sono divenute carta straccia in pochi secondi creando una zona franca in cui l’odio non è ammesso, a patto che tu non stia parlando dei russi durante la guerra della Russia in Ucraina. In questo modo si è creato un nuovo precedente arbitrario nella cyber-guerra che avrà senza dubbio conseguenze negative sulla qualità delle conversazioni online.
Se la pace deve vincere sulla guerra, riflettiamo parallelamente su questo nuovo paradosso digitale, e facciamo in modo che anche l’educazione mediale vinca sulla comunicazione dell’odio e della violenza.
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