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Sunrise, dal bivacco sulla panchina
all’abbraccio con la sorella:
una rete di solidarietà l’ha salvato

JESI – Il migrante senza dimora ha “vissuto” per un periodo agli orti Pace. Grazie alla cordata di Asp Ambito 9, Caritas e Polizia locale si è riusciti a rintracciare i suoi familiari, a farlo salire su un treno per raggiungerli in Valle d’Aosta dove ora potrà anche curarsi

foto d’archivio

 

Grazie alla rete di protezione che si è creata intorno a una persona senza dimora tra servizi sociali, Caritas e polizia locale del comune di Jesi, un migrante senza fissa dimora ha potuto riabbracciare la sorelle in Valle d’Aosta, tornare ad abitare in una casa ed essere curato. «Molti di voi hanno visto quel ragazzo che ha “vissuto” per un periodo su una panchina degli orti Pace. Qualcuno lo ha segnalato, qualcuno lo ha persino fotografato, qualcuno ha scritto un articolo sui quotidiani locali. Quel ragazzo è Sunrise (nome di fantasia), camerunense poco più che quarantenne, reso fragile dalle precarie condizioni di salute aggravate dalla condizione di senza dimora. E utilizzo non a caso “senza dimora” e non “senza fissa dimora”. Perché Sunrise una dimora non ce l’ha. Nemmeno occasionale». A raccontare questa storia a lieto fine in una nota è Maria Pina Masella dell’Area Inclusione Sociale- Asp Ambito 9.

«Chi lo ha visto ha provato compassione, qualcuno disgusto, qualcuno paura e qualcun altro rabbia. Perché un senza dimora disturba la vista, in un modo o in un altro. – ricorda Masella – L’occhio benevolo pensa che quella persona ha bisogno di aiuto. Di mangiare, di lavarsi, di avere un tetto sulla testa. È ovvio. Per citare Maslow, alla persona senza dimora mancano i bisogni alla base della piramide, quelli essenziali. Ma ci sono due modi di aiutare la persona senza dimora: offrire cibo, coperte, una doccia e un letto temporaneo in un centro di accoglienza. L’altro modo è quello di offrire tutto questo e nel frattempo occuparsi di lui, di quei bisogni che stanno a un gradino più alto della piramide. Non sempre è facile e in questo caso era molto difficile. Sunrise non si fidava, non voleva essere aiutato o così ci era sembrato. Dalla panchina ha cominciato a spostarsi in altre zone di Jesi e poi ad Ancona e di nuovo a Jesi. Un continuo fuggire. Così un giorno ci siamo seduti attorno a un tavolo abbiamo cominciato a occuparci davvero di lui. Ognuno per la sua parte.

Abbiamo iniziato a fare ricerche sulla sua vita, partendo dalla città di residenza, passando per le città, gli ospedali e le Caritas da cui è passato. Una vita in giro senza riuscire a fermarsi mai, senza riuscire a curarsi e ad avere una vita normale».

Ecco che dopo tante ricerche si scopre che il giovane aveva una sorella in Italia «che non poteva più contattarlo perché Sunrise non aveva più un telefono. – sottolinea l’operatrice dell’Asp Ambito 9 – Nel frattempo, mentre cercavamo di capire, Sunrise sembrava scomparso. Fino all’altro giorno quando, tramite la Polizia locale di Jesi, veniamo a sapere che Sunrise era stato fermato dalla Polizia locale di Ancona. Al comando si è mostrato ancora più fragile, non sembrava nemmeno più arrabbiato. Forse era solo molto stanco. Abbiamo chiesto alla Polizia locale di non lasciarlo andare mentre avremmo avvisato la sorella, che vive con la sua famiglia in Valle d’Aosta, e l’avremmo messa in contatto con lui. E così è stato. Sunrise e la sorella si sono parlati, dopo tanto tempo. La sorella gli ha detto che lo avrebbe accolto per aiutarlo a curarsi. Sunrise ha detto sì. E da lì in poi è stata una corsa contro il tempo, una staffetta per organizzare il viaggio, per paura che si sarebbe allontanato e lo avremmo perso di nuovo. La Caritas di Jesi ha acquistato il biglietto del treno e un’operatrice della Caritas di Ancona si è recata presso la Polizia locale per consegnarglielo. La paura che non riuscisse ad affrontare il viaggio, così lungo, era tanta. Ma il giorno dopo abbiamo esultato. Sunrise era arrivato dalla famiglia di sua sorella in Valle d’Aosta che si è subito attivata per proteggerlo e curarlo».

Una bella storia, risultato di una squadra che ha funzionato, che è andata oltre l’idea del “barbone che bivacca su una panchina”,«che ha guardato la persona e non solo la sua condizione. La grande sfida è quella di arrivare alla comunità, a quella comunità che prima di chiedere alle istituzioni “che cosa potete fare per lui?” si chieda “che cosa posso fare io?”, per diventare parte attiva della rete» conclude Maria Pina Masella dell’Area Inclusione Sociale- Asp Ambito 9.

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