Domani alle 14 circa la Life Support di Emergency approderà nel porto di Ancona, alla banchina 19, per lo sbarco dei 49 naufraghi soccorsi il 12 novembre nelle acque internazionali della zona Sar maltese, nel Mediterraneo Centrale.
«Dopo il soccorso le autorità italiane ci hanno assegnato per lo sbarco dei naufraghi il porto di Ancona, che dista cinque giorni di navigazione dalla zona dell’intervento – afferma Domenico Pugliese, comandante della Life Support di Emergency -. Le condizioni meteo non sono favorevoli, vento e mare causano disturbo alla navigazione e malessere alle persone soccorse. A maggior ragione lo staff di Emergency continua a prendersi cura dei 49 naufraghi a bordo che stanno presentando in particolar modo sintomi da mal di mare. È la quinta volta che ci viene assegnato un porto di sbarco nel nord del mare Adriatico, molto distante dal luogo dove è avvenuto il soccorso: questo ci obbliga a restare lontani dalla zona operativa nel Mediterraneo Centrale per più di una settimana. Le navi da ricerca e soccorso dovrebbero essere in grado di rimanere dove c’è bisogno di loro, invece che passare così tanto tempo per raggiungere porti distanti».
«Le persone soccorse nel pomeriggio di martedì 12 novembre viaggiavano a bordo di una piccola barca in vetroresina, sovraffollata, inadatta ad attraversare il Mediterraneo e senza le necessarie dotazioni di sicurezza, quali i salvagenti – spiega Emergency – Nei giorni subito antecedenti e successivi al soccorso, la Life Support ha notato un’intensa presenza della cosiddetta Guardia costiera libica nell’area operativa, e dal ponte di comando sono state avvistate diverse piccole imbarcazioni vuote. Questo induce a pensare che ci siano stati diversi respingimenti verso la Libia, paese che non può considerarsi sicuro a causa dei conflitti interni e delle numerose violazioni dei diritti umani documentate da tanti organi internazionali. In questo quadro già critico, preoccupano le notizie di emendamenti per sottrarre la competenza sulla convalida dei trattenimenti dei richiedenti asilo alle sezioni specializzate in immigrazione dei tribunali civili o per secretare gli appalti di forniture e servizi per mezzi e materiali ceduti a Paesi terzi per il controllo dei flussi, che in pratica significa non sapere più niente delle motovedette che cediamo a Libia o Tunisia».
«Da una prima valutazione effettuata subito dopo il salvataggio – spiega Elena Mari, dottoressa a bordo della Life Support – le persone presentavano disidratazione, mal di mare e lesioni cutanee. Durante le visite realizzate nei successivi giorni di navigazione è emerso che tre delle persone soccorse sono diabetiche. Ovviamente fino a quando non arriveremo ad Ancona continueremo a prenderci cura di tutti i naufraghi».
I 49 naufraghi, di cui 6 donne e minori non accompagnati, erano partiti da Al-Zawiya in Libia e provengono da Siria, Egitto e Bangladesh.
«Vengo da una città del sud della Siria, Idlib, un posto che è stato molto colpito dalla guerra negli ultimi anni – racconta un ragazzo di 32 anni-. Lavoravo come cameriere part-time e il resto del tempo raccoglievo plastica in giro per la città per portarla in uno stabilimento dove veniva riciclata. Questo mi permetteva di mettere un po’ di soldi da parte. Dopo anni di bombardamenti costanti, lo scorso anno sono riuscito a raccogliere il denaro per lasciare la città insieme alla mia famiglia, siamo andati in un paese poco lontano da Damasco. Da lì – prosegue – è iniziato il mio viaggio verso l’Europa passando per la Libia. Ho passato 5 mesi ad Al-Zawiya in piccoli appartamenti con altri siriani, anche 30 persone stipate in un solo appartamento, ci spostavano due o tre volte al mese e non potevamo uscire di casa. Durante questo tempo per due volte ho provato ad attraversare il Mediterraneo, ma i libici ci hanno ripresi e portati in una prigione e ci hanno detto che se non avessimo pagato migliaia dollari ci avrebbero aperto la pancia e ci avrebbero tolto degli organi da rivendere. Non era una minaccia a vuoto, lo fanno davvero. Per fortuna sono riuscito a pagare, ma questo fa capire che i libici vedono noi persone migranti solo come merce. E questa è stata la cosa che mi ha fatto più male, non la violenza fisica diretta, ma sentirmi dire che il mio corpo era una merce, che la mia vita valeva solo quanto avevo in tasca».
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