Luigia Carlucci Aiello
di Alessandra Pierini
“La maniera migliore per prevedere il futuro è inventarlo”. Luigia Carloni Aiello, “mamma” marchigiana dell’intelligenza artificiale prende in prestito una frase dell’informatico americano Alan Kay per consigliare la strada da seguire ai ragazzi e alle ragazze che sognano di lavorare nell’ambito delle Stem. «Se qualcosa ti appassiona – dice – partecipa al processo di creazione. E’ la maniera di costruire il nostro domani e quello dei nostri figli e nipoti».
Ed è senz’altro la strada che ha seguito lei stessa quando, nata a Cerreto D’Esi, si è diplomata a Fabriano per poi laurearsi in Matematica, indirizzo Computer all’Università di Pisa. «All’epoca – ricorda – non esisteva neanche il termine “Informatica” né il corso di laurea. La mia curiosità era tanta, Pisa era un ambiente molto vivace, c’erano i ricercatori del Cnr, i primi a costruire un pc in un ateneo. Da matematica, ho cominciato a interessarmi dell’uso del computer per dimostrare teoremi matematici».
E’ arrivata così l’esperienza a Stanford nel laboratorio del professor Joseph McCarthy. «Erano gli anni Settanta. «Ho cominciato ad interessarmi di intelligenza artificiale negli anni 70. A Stanford ho frequentato la prima scuola estiva nel giugno 1970. Lì ho conosciuto McCarthy ed altri studiosi già famosi e ho deciso che volevo andare a lavorare con loro. Il laboratorio era molto ricco, si lavorava a un braccio meccanico che rappresentava una prima forma di robotica. C’era anche un veicolo autonomo che si muoveva intorno all’edificio. In quel laboratorio ho visto nascere tutto ciò che è arrivato nelle nostre case e sulle nostre scrivanie, è stata una esperienza stimolante».
Poi il ritorno in Italia dove ha lavorato in diversi atenei per arrivare all’Università La Sapienza a Roma. «Mi sono anche occupata di altre cose, soprattutto a Roma quando avevo un gruppo di ricerca intorno a me, erano gli anni dei sistemi esperti, dei problemi di sicurezza, della robotica cognitiva fino ad arrivare ai tanti successi di questo secolo. L’esplosione è arrivata dopo la mia pensione. Ho comunque continuato a seguire questa evoluzione dalla distanza perché in realtà si smette di lavorare, ma non di leggere e scrivere».
Cosa ne pensa? «Sto seguendo con molto interesse ma con non poche preoccupazioni
per come si stanno configurando le cose a livello internazionale. Da una parte c’è l’America che fa tanto, dall’altra l’Europa che non fa ma impone regole. La domanda che semplifica quanto sta accadendo è mettereste una Ferrari in mano a un non patentato o nel mercato una Ferrari non collaudata? Allo strumento deve corrispondere una sana regolamentazione. Mi preoccupa anche l’ignoranza, sovrana anche tra il pubblico più colto e informato su quello che sta succedendo e che offre il mercato. Oltre al fatto che al momento l’Intelligenza artificiale commette errori anche difficili da rilevare con conseguenze immaginabili».
Da “mamma” dell’intelligenza artificiale italiana, cosa pensa di questo figlio o figlia che sia, che sta crescendo? «Nella ricerca, l’intuizione dell’intelligenza artificiale arriva negli anni ’30. Il termine viene coniato negli anni ’40 da Mc Carthy. Quindi ha una storia decennale. Ci sono stati momenti di grandi speranze e di profonde delusioni, attualmente sta vivendo un grandissimo successo. Il rischio è che arrivi un grande inverno, che la gente rimanga delusa soprattutto di fronte ad aspettative troppo alte, con l’aggravante che in questa fase il coinvolgimento industriale è molto più significativo. L’inverno in questo momento sarebbe devastante. Io in questo processo mi sono molto divertita, l’ho affrontato con entusiasmo e credo di aver trasmesso entusiasmo a chi ha lavorato con me. L’entusiasmo c’è ancora ma ora siamo anche scettici e prudenti anche perché ormai qualunque cosa legata al digitale viene identificata come intelligenza artificiale. Sono 70 anni che usiamo i computer in maniera pervasiva e capillare e non ci siamo posti il problema dell’intelligenza artificiale, ora qualsiasi cosa facciamo con un telefonino o con laptop è intelligenza artificiale. Persino la lavatrice o l’ascensore che rispondono ai comandi e fanno cose di cui ci fidiamo grandemente ma non possiamo definire intelligenza artificiale. L’automazione non vuol dire autonomia».
Martedì è stata la giornata delle donne e delle ragazze Stem, lei è stata una delle poche donne a dirigere un dipartimento di Ingegneria, oltre ad essere una pioniera nel suo settore. Qual è il suo messaggio?
«La cosa più importante è fare ciò che ti piace. Non dirò mai fai questo perché è facile, cose facili non si si incontrano su questa strada. Ci sono problemi di ricerca, difficili da risolvere. C’è da prepararsi a uno studio serio e ad un lavoro impegnativo. Se lo si fa con piacere, la fatica è minore. Si deve seguire la propria inclinazione e lavorare seriamente. Poi la strada per le donne è spianata? No, è molto complicata, stereotipi e aspettative sono molto radicati nella cultura e nella società. Si possono fare tanti esempi di frustrazioni e incidenti di percorso, l’ho visto tra le poche studentesse che ho avuto, ho sempre insegnato ad ingegneria e ho avuto studenti e studentesse brillanti ma molto più studenti sia in aula. Questo è legato al blocco in ingresso
Difficilmente le ragazze scelgono ingegneria ma se lo fanno e sono pronte ad affrontare le difficioltà, si divertono anche. Per questo uso per loro la frase di Alan Kay, padre del computer portatile nella sua tesi di dottorato, nel 1965, parlava di bambini che giocavano al pc seduti su un prato sotto un albero. Non c’era la tecnologia necessaria per fare nulla di tutto questo ma lui lo già intravedeva. Quindi lo ripeto. “La maniera migliore per prevedere il futuro è inventarlo”».
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