di Gianluca Ginella
Un pugno di neve e sopra una rosa bianca. Sfiderà il vento gelido di Farindola e attenderà giustizia. È una di quelle che hanno lasciato a due passi dalle rovine dell’hotel Rigopiano i parenti delle vittime. Ventinove le persone, tra clienti e dipendenti dell’albergo, che hanno perso la vita il 18 gennaio 2017 sotto la valanga che distrusse il resort. E poi dopo la valanga, l’attesa dei soccorsi, la speranza che sotto la neve, tra le macerie, ci fosse ancora qualcuno vivo e la ricerca continua di superstiti: solo 11.
Da quel giorno, ogni anno, i parenti sono tornati lassù perché quella tragedia non venga dimenticata e perché, come dice uno striscione steso questa mattina: “I nostri angeli meritano giustizia, noi la chiediamo per loro”. I parenti indossano pettorine del comitato “Vittime di Rigopiano”, bianche, e sul davanti la foto di chi è scomparso sotto la neve. Le indossano anche i parenti di Marco Tanda e Emanuele Bonifazi, i due ragazzi del Maceratese morti nella tragedia, lo stesso i parenti di Dino Di Michelangelo, agente di polizia in servizio a Osimo e della moglie Marina Serraiocco, commerciante, pure loro trovati morti sotto la neve (solo il figlio di 8 anni, Samuel, si è salvato). I famigliari con le pettorine e una rosa bianca in mano si sono incamminati lungo una lingua di neve che corre tra i prati e raggiunge le rovine del resort. È là che le rose sono state lasciate. «Oggi è una giornata di ricordo, di preghiera, di conciliazione con tutti – dice Egidio Bonifazi, papà di Emanuele, il 31enne di Pioraco che lavorava nell’hotel –. Ma vale solo per oggi, da domani si riprende la lotta per la giustizia, noi non lasceremo indietro niente». Perché «a distanza di tre anni fa sempre più male venire qui, per via di tutti gli eventi che si sono succeduti, la notizia del depistaggio. Questo è preoccupante, perché c’è di mezzo tantissima gente sulla disgrazia dell’hotel, lo Stato era completamente assente in quei giorni. Allora sono stati tutti latitanti, e adesso che va avanti l’indagine viene fuori che ci sono di mezzo tutti: quello fa male, ogni volta si rivive quella tragica notte».
«Era più facile salvarli che lasciarli dov’erano, questo emerge dalle indagini» dice Gianluca Tanda, il fratello di Marco, il 26enne di Castelraimondo, pilota di Ryanair, che ha perso la vita insieme alla fidanzata, Jessica Tinari. Lui è in prima linea per cercare la verità: «da tre anni la mia vita è questa, a volte mi sveglio la notte e mi rileggo il fascicolo d’indagine perché mi viene in mente qualcosa da cercare e approfondire. Lì dentro c’è tutto, è come la Bibbia, lì si può trovare la verità». Tanti i sentimenti dell’ultimo anno vissuto: «dolore, rabbia, delusione ma anche gioia quando trovi un documento importante che però poi porta allo sconforto di comprendere che era più facile salvarli – spiega Tanda –. Ma oggi ho visto oltre al dolore anche tanto amore: ho visto madri che portavano i fiori con amore, non con la rabbia che ci stiamo portando dietro da circa un anno, da quando siamo a conoscenza del depistaggio.
Per un giorno l’amore si è sostituito alla rabbia. Ma domani purtroppo ci torneranno questi sentimenti che non sono controllabili». Una vicenda «che ha preso una piega inverosimile, mi viene da dire che fa impallidire anche il caso Cucchi, per dare una idea – dice Tanda –. Oggi abbiamo tutti gli elementi utili per capire le responsabilità, che ancora non sono state accertate, a tre anni. Deve essere fatta piena luce sul depistaggio, che non può essere stato fine a se stesso. Ma è servito a nascondere l’operato di persone che hanno contribuito alla morte di chi era nell’albergo». E va compreso il movente: «Tre sono le cose: una il piano neve 2016-2017, completamente sbagliato (vengono attribuiti mezzi già rottamati nel 2015), la seconda è aver ignorato le allerte meteo per l’emergenza neve, e terza: nel caos più totale l’emergenza è stata gestita malissimo. Questo non lo dico io, lo dicono gli atti. E noi vogliamo che tutta la verità degli atti venga sottoposta al vaglio dei giudici».
Anche Alessandro Di Michelangelo a Rigopiano ha perso un fratello, Dino, poliziotto come lui: «Oggi è il giorno della memoria e del ricordo, oggi il nostro pensiero è solo ad onorare al meglio il ricordo dei nostri angeli. Da domani si torna a lottare per onorarli come ogni giorno da quel triste giorno di tre anni fa che ha segnato la vita di ognuno». Sul processo che deve ancora iniziare a 3 anni dalla tragedia dice: «Mi fido del lavoro della procura e della giustizia. Dino vorrebbe questo se fosse lui al mio posto». Il figlio della coppia, Samuel, sopravvissuto alla tragedia, oggi ha 10 anni e vive con lo zio Giuseppe Serraiocco (fratello della mamma), la moglie Martina, suoi genitori adottivi, e la loro bimba di 2 anni, la sorellina che ha visto nascere e che ama molto. «La nostra vita si è spenta tre anni fa, non doveva succedere, viviamo in uno Stato “sporco” dove lavora gente pericolosa senza avere un minimo d’interesse del popolo. – racconta Giuseppe Serraiocco – Oggi c’è la commemorazione a Rigopiano io come ogni anno sono assente perché mi sa di presa in giro, preferisco ricordare Marina e Dino con un pranzo in famiglia. Purtroppo il dolore con il passare del tempo ti divora sempre di più ma non posso permettermi che mi faccia del male. Ho due figli».
Sul processo aggiunge: «Dopo questa serie di rinvii che c’è da dire? Ci hanno dato già la risposta, quando sapremo la verità? Se io commetto un reato si fanno in diecimila pur di mettermi in galera, e qua ci troviamo al punto che dopo tre anni ancora non si comincia. C’è qualcosa che non torna».
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