di Talita Frezzi
Sono abituati a operare in contesti internazionali con la stessa flessibilità e capacità di intervento che solo un reparto d’élite può garantire: ma questa volta non si è trattato di intervenire a sostegno di persone ferite da arma da fuoco o per problematiche ortopediche. Questa volta, il nemico era invisibile e spietato. Gli uomini della Brigata San Marco della Marina Militare hanno lasciato Jesi pochi giorni fa, dopo aver presidiato per un mese un posto medico avanzato all’esterno dell’ospedale Carlo Urbani. Combattendo, fianco a fianco con i sanitari del nosocomio jesino, contro il Covid-19. Abbiamo voluto raccogliere la voce del capo missione del dispositivo medico del contingente, il comandante di vascello Aldo Sciruicchio.
Comandante, come vi siete organizzati per allestire un ospedale da campo in così poco tempo?
«La brigata è un reparto d’élite della Marina Militare, addestrata ad essere “proiettata” con breve preavviso in teatri internazionali, un reparto altamente flessibile, versatile ed efficace, in grado di condurre tutto lo spettro delle operazioni anfibie, umanitarie, di peace support e di soccorso alla popolazione civile in caso di calamità naturali, raggiungendo in tempi brevissimi, grazie anche alle navi anfibie della Marina Militare, l’area di operazione, per rischierarsi ed operare anche in contesti isolati, mantenendo un elevata autonomia operativa e logistica. Non a caso il motto della brigata marina San Marco è “per mare per terram”. Il continuo addestramento ci ha consentito di rispondere alla chiamata della Protezione Civile con estrema rapidità e prontezza. In sole 24 ore dall’attivazione disposta dal Ministro della Difesa Lorenzo Guerini, l’intera aliquota ha ultimato la predisposizione dei mezzi necessari a trasportare il posto medico avanzato – che già era stato approntato in previsione di un possibile impiego legato all’emergenza Covid-19. Il 1 aprile il dispositivo, costituito da 90 uomini che hanno condotto 5 autocolonne cariche di tutto il necessario per allestire una struttura in grado di allentare la pressione a cui era sottoposta l’Asur Marche, è partito da Brindisi alla volta di Jesi»
Quante persone sono state impiegate?
«Nel giro di 72 ore l’intera struttura era montata. In brevissimo tempo, come di solito avviene, il 1° reggimento San Marco si è riconfigurato per assolvere la missione costituendo una Task Force composta da un assetto sanitario di 8 medici, 16 infermieri ed 11 operatori tecnico sanitari della Marina Militare, provenienti da diverse sedi sparse per tutta l’Italia e 35 fucilieri che hanno continuato a garantire i servizi tecnici (come elettricisti, elettrogenisti, motoristi ecc.) e di comando e controllo del Posto medico avanzato».
Quali erano le vostre principali preoccupazioni?
«La brigata è addestrata ad affrontare situazioni complesse e non sempre conosciute, come diciamo in gergo tecnico, siamo preparati ad affrontare la “fog of war” – la nebbia della guerra. In passato abbiamo preso parte a molte operazioni umanitarie: il terremoto a L’Aquila, Amatrice o Haiti nel 2010, allestendo strutture campali in supporto alla popolazione colpita, cucine da campo e fornendo generi di prima necessità alle zone isolate, tuttavia, questo è stato il primo vero banco di prova per il posto medico avanzato, una struttura pensata e creata per compiti molto diversi da quelli che abbiamo svolto qui a Jesi nell’ambito dell’emergenza Covid-19. In questo contesto ci siamo trovati ad affrontare un nemico sconosciuto ancora dalla maggior parte degli esperti ed invisibile, che colpisce prevalentemente pazienti con un identikit completamente differente da quello di noi militari, esposti prevalentemente a ferite d’arma da fuoco o problematiche ortopediche; i pazienti Covid solitamente sono persone con difficoltà deambulatorie, necessità costante d’ossigeno e verosimilmente di età avanzata».
Come vi siete adeguati a questa particolare emergenza?
«Ci siamo resi conto immediatamente della necessità di riadattare i nostri assetti, così, confrontandoci con la direzione dell’ospedale Carlo Urbani, abbiamo apportato migliorie e modifiche, per adeguare la nostra struttura agli standard del Carlo Urbani, ospedale assolutamente all’avanguardia. Composta da 12 tende di cui 8 degenza, configurate come due corsie ospedaliere, con testaletto provvisti di impianto per gas medicali, letti dotati di materassi antidecubito ed un sistema di condizionamento in grado di mantenere autonomamente la temperatura costante all’interno delle tende. Sono stati istituiti i percorsi sanitari (sporco e pulito), esattamente a similitudine di quelli che si trovano all’interno dei nostri ospedali. Shelter doccia per il personale sanitario, bagni ed ulteriori tende per lo stoccaggio del materiale sanitario e dei dispositivi di protezione individuali. Anche una volta entrati i primi pazienti, sono continuate le opere di miglioria da parte del personale tecnico della brigata».
Quanti pazienti avete accolto nell’ospedale?
«Dal momento in cui è stato firmato l’accordo d’intesa tra la Marina Militare e la direzione dell’ospedale, momento in cui il posto medico avanzato ha assunto quindi la denominazione di “Reparto Covid Tenda” dell’Urbani, è iniziata l’attività del personale sanitario della Marina Militare, che già partecipava attivamente ai turni in corsia in affiancamento al personale civile. I primi pazienti hanno fatto ingresso in tenda l’8 aprile. Da quel momento l’attività è continuata secondo quanto richiesto dall’ospedale e tutti i pazienti che hanno accettato la soluzione campale, per alleggerire la pressione all’interno dell’Urbani e permettere di riaprire reparti ormai tramutati in Covid sono stati accolti nel posto medico avanzato. Il giorno di Pasquetta abbiamo avuto il primo dimesso, un bel modo per “festeggiare” un giorno d’unione e spensieratezza in tempi come questo. Durante il periodo di attività abbiamo ospitato 13 pazienti in totale, e con le dimissioni dell’ultimo paziente, il 30 aprile scorso, dovute di fatto al miglioramento generalizzato su scala nazionale del numero di casi e pazienti positivi che necessitano di ricovero, la Protezione Civile insieme alla Regione Marche ha concordato con il Ministero della Difesa, di porre il posto medico avanzato in quiescenza».
Il rapporto con i sanitari della struttura ospedaliera Carlo Urbani?
«Sin dalle primissime fasi di questa operazione si è creato un bellissimo rapporto di fiducia e mutua collaborazione con il personale dell’ospedale Carlo Urbani e con la Protezione Civile della Regione Marche e di Jesi, in particolare. Tutto il dispositivo ha lavorato senza sosta per rendere operativa ed efficiente la struttura, perché potesse ospitare i nostri connazionali. Fondamentali per la riuscita della missione, le relazioni create con il personale sanitario dell’ospedale, che hanno travasato ai nostri medici tutte le tecniche apprese sul campo, contro un nemico che per tutti era sconosciuto o nuovo. La loro esperienza maturata sin dalle prime fasi di questa emergenza è risultata fondamentale perché potessimo svolgere effettivamente un ruolo di supporto efficace. Di fatto c’è stata massima collaborazione e reciproco supporto. I nostri medici hanno condiviso opinioni mediche, facendo diagnosi congiunte, semplicemente usando un telefono o il PC collegato alla rete ospedaliera, con il quale scambiavano le informazioni mediche, insieme hanno vissuto l’evoluzione dei quadri clinici, studiati riadattando le terapie».
Quali le vostre sensazioni durante le giornate di emergenza legate al Covid?
«I primi giorni, mentre allestivamo la struttura, si percepiva l’emergenza, in città non c’era nessuno, le sirene delle ambulanze suonavano spesso e desideravamo concludere il prima possibile per poter essere di supporto all’ospedale. Non appena hanno iniziato a fare ingresso i primi pazienti, abbiamo assistito dalla prima linea al miglioramento della situazione emergenziale, che interessava tutto il Paese».
C’è stato un caso particolare, un paziente più degli altri, la cui storia della malattia vi ha emozionati?
«Con tutti i pazienti si sono creati legami che resteranno per molti di noi indelebili. Li abbiamo visti entrare e li abbiamo salutati una volta usciti, ricorderemo sempre i sorrisi e le parole di ringraziamento. Una paziente in particolare, Anna Maria, ha saputo donarci tanto. Ha festeggiato il 79esimo compleanno insieme a noi e una volta uscita si è fermata chiedendoci una foto e continuando a salutarci, ritardando il suo ingresso sull’ambulanza che l’avrebbe condotta a casa ed anche una volta a bordo ha voluto fotografare un banner con la scritta “Brigata Marina San Marco”, dicendo che avrebbe tenuto quelle foto come ricordo e le avrebbe mostrate ai suoi cari, ringraziando per sempre quegli angeli bianchi che portavano il jack della Marina Militare sul cuore».
Quale il bilancio alla conclusione di questa esperienza?
«Nel rivolgere un deferente pensiero di cordoglio per chi è stato sopraffatto dal Coronavirus, la consapevolezza di aver concorso affinché tanti altri connazionali potessero sconfiggere il Covid e tornare dai propri affetti ci rende estremamente fieri. Gli sforzi sono stati ripagati dalle belle parole, dagli sguardi e dai gesti delle autorità locali, dei medici, infermieri e sanitari tutti oltre che dalla stessa cittadinanza. Siamo stati davvero orgogliosi ed onorati di lavorare per questa comunità che ci ha accolto in maniera straordinaria. Questa missione l’abbiamo vissuta oltre che per il Paese, con il Paese ed è questo che la renderà per sempre unica ed indimenticabile, anche quando torneremo a compiere missioni peculiari delle Forze Armate, sempre difendendo gli interessi della nostra Nazione. Da oggi il posto medico avanzato della Brigata Marina San Marco resta a disposizione della collettività, in notice to move (pronto a muovere) in 72 ore quale “garanzia”, durante la fase 2, nella quale, tutti noi italiani siamo chiamati a fare la nostra parte con coscienza e senso di responsabilità, per poter compiere la missione assegnata: sconfiggere il Covid-19».
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