di Claudio Maria Maffei*
Più volte anche di recente è stata segnalata qui su Cronache Maceratesi la difficoltà degli ospedali pubblici nelle Marche sia nel richiamare nuovi medici che nel trattenere quelli in servizio. Proprio questa settimana è stato dato spazio ai risultati di uno studio del principale sindacato medico italiano, l’Anaao-Assomed, studio che documenta come le Marche siano state nel 2019 la regione con la percentuale di medici in fuga dagli ospedali pubblici più alta d’Italia. Nel 2019 ci sono state infatti nelle Marche 197 cessazioni volontarie di medici che hanno scelto di lasciare il lavoro nelle strutture pubbliche prima dell’età pensionabile. Si tratta di una percentuale del 6,6% più del doppio della media nazionale. Lo studio riporta anche il dato del 2009 quando nelle Marche il numero di cessazioni volontarie era stato di 64, un terzo di quello registrato dieci anni dopo. Lo studio non cita le specialità più interessate che notoriamente sono quelle chirurgiche (ortopedia in primis), la anestesiologia e la radiologia.
Quali sono le ragioni di questo fenomeno? E’ lo stesso sindacato ad elencarle, come ad esempio il lavoro burocratico diventato intollerabile, l’autonomia decisionale svilita, la professionalità poco premiata, la pesante solitudine di fronte a tutte le mancanze e a tutte le carenze organizzative, il rischio di denunce legali e aggressioni aumentato negli anni e le ambizioni di carriera ridimensionate. A questi fattori si aggiunge anche il fatto che molto prosaicamente e banalmente nelle strutture private dove sempre più medici scelgono invece di andare a lavorare in certe discipline si guadagna di più, si lavora meglio e si rischia di meno.
Prendiamo il caso delle Marche che ha una rete di otto case di Cura private cui la Giunta Ceriscioli ha significativamente aumentato il budget. Queste strutture svolgono soprattutto attività chirurgica per la quale però non svolgono attività in urgenza, non trattano i pazienti più complessi perché non hanno terapia intensiva e in cui possono scegliere le prestazioni cui dedicarsi. L’opposto della rete delle strutture pubbliche in cui le urgenze tolgono spazio alla attività programmata e assorbono buona parte dell’orario di servizio dei medici, vanno presi in carico tutti i casi e vanno garantite quasi tutte le prestazioni comprese quelle meno “remunerative”. La differenza tra lavorare nelle strutture pubbliche e private è clamorosamente emersa nel corso della pandemia: mentre le strutture pubbliche hanno quasi sospeso la attività chirurgica, questa molto spesso è proseguita pur con tutte le precauzioni del caso nelle strutture private. Certo ci sono state importanti eccezioni come quella di Villa dei Pini di Civitanova Marche che nella prima fase della pandemia si è trasformata in una struttura Covid. Ma stiamo parlando appunto di eccezioni.
Ai cittadini potrebbe stare anche bene che certe attività chirurgiche “soffrano” negli ospedali pubblici e trovino invece ampio spazio in quelli privati (specie quando sono ben gestiti ed efficienti, come nel caso di Villa dei Pini appunto), ma poi non ci si può lamentare se i medici scelgono di andare a lavorare nel privato sguarnendo gli ospedali che hanno la responsabilità di garantire le urgenze. Un ospedale con Pronto soccorso deve avere una ortopedia che lavori nelle 24 ore e se gli ortopedici non si trovano o lasciano le strutture pubbliche questa funzionalità si perde. E in ogni caso non puoi avere ortopedici che lavorano quasi solo nelle urgenze perché così non riescono a formarsi, hanno il massimo di rischi e quasi il minimo di soddisfazioni.
Cosa può fare la politica e non ha fatto negli ultimi anni e continua a non fare? Regolamentare meglio il rapporto con i privati, organizzare una rete ospedaliera meno dispersiva e dare più attenzione ai propri professionisti. Saper governare vuol dire saper dare una risposta anche a questi problemi.
*Medico e dirigente sanitario in pensione
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