di Alessandra Pierini
Alzi la mano chi sa già se voterà si o no ai referendum sulla giustizia del 12 giugno. Possiamo ipotizzare che non saranno tante. Eppure il referendum è uno degli strumenti più importanti della democrazia e la giustizia incide, in qualche modo, sulla vita di tutti. Non solo su chi si trova a commettere crimini o misfatti e deve essere per questo giudicato. Basti pensare che ci sono aziende straniere che decidono di non investire in Italia perché spaventate dai 7 gradi di giudizio che si troverebbero ad affrontare in caso di contratti contestati o querelle di tipo economico.
Eppure i 5 quesiti referendari, proposti da Lega e Radicali, sui quali ci pronunceremo tra pochissimo non riscuotono l’attenzione né da parte della politica, né da parte dei media, né tantomeno trovano campo fertile sui social, probabilmente per la loro complessità. Proviamo quindi a capire su cosa andremo votare e quale sia il significato dei referendum sulla giustizia con il professor Giulio Salerno, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico al Dipartimento di Economia e diritto dell’Università di Macerata, coordinatore del “Centro di Studi Costituzionali”, e attualmente direttore dell’Issirfa (Istituto di studi sui sistemi regionali, federali e sulle autonomie) del Consiglio nazionale delle ricerche.
Professor Salerno, perché l’attenzione verso il prossimo referendum è così ridotta?
«Da lungo tempo la partecipazione popolare ai referendum abrogativi è piuttosto bassa. Anzi, dal 1997 in poi, fatta eccezione per tre referendum svoltisi nel 2011, ben 25 consultazioni referendarie non hanno superato il quorum di partecipazione previsto dalla Costituzione, ossia la metà più uno degli aventi diritto al voto. Anche quest’anno vi è il fondato timore che la maggioranza degli aventi diritto non andrà a votare, vanificando così gli obiettivi dei promotori. Molte sono le cause di questo fenomeno. A partire dalla sfiducia dei cittadini nei confronti del referendum abrogativo, strumento potente di democrazia diretta ma che, sempre più spesso, si è dimostrato “spuntato” o comunque insufficiente per raggiungere lo scopo ultimo, ovvero l’obiettivo politico prefissato o proclamato dai promotori. In particolare, i referendum abrogativi del 2022 riguardano cinque quesiti che concernono l’organizzazione e l’esercizio della funzione giurisdizionale, una tematica certo rilevante e che richiede senz’altro un complessivo disegno di riforma. Tuttavia, proprio per la natura puntuale dell’intervento mediante referendum abrogativo, i cinque quesiti affrontano questa tematica in relazione a specifici aspetti. E, per di più, si tratta di profili piuttosto tecnici e rispetto ai quali talora non è di non facile comprensione il nesso tra lo specifico esito abrogativo di ciascuna consultazione e la “ragione politica” che ha mosso i promotori a presentare la relativa iniziativa referendaria».
Molto spesso, in passato, i quesiti referendari sono stati presentati in maniera ambigua o comunque non di facile interpretazione. E’ così anche in questo caso?
«Spetta alla legge stabilire modalità chiare e oggettive di presentazione dei quesiti referendari. In particolare, la legge prevede che le schede su cui votiamo, debbano presentare la “denominazione” del quesito, ma anche per i quesiti del 2022 le denominazioni che troveremo nelle schede non aiuteranno certo i cittadini a capire su cosa effettivamente sono chiamati a votare. Soltanto gli esperti della materia e i tecnici del diritto possono orientarsi con una qualche sicurezza tra i commi e gli articoli che sono variamente riportati nelle schede. Del resto, neppure la “pubblicità istituzionale” sulle reti televisive o sui siti internet delle pubbliche istituzioni aiuta a diradare la nebbia sul significato effettivo dei cinque referendum e sulle conseguenze che ne deriverebbero. A questo proposito, si dovrebbe superare il formalismo che domina l’intera procedura, e fare molto di più per fornire ai cittadini – ben prima del momento del voto e dunque sin dall’inizio della cosiddetta “campagna referendaria” – le indicazioni indispensabili per decidere con piena consapevolezza se e come votare. E’ davvero paradossale che con tutti i mezzi tecnologici adesso a disposizione lo Stato faccia davvero pochissimo per informare compiutamente i cittadini. A mio avviso, se non si interverrà su questo aspetto decisivo, la parabola del referendum abrogativo non potrà che continuare ad essere discendente. Tra l’altro, andrebbe ben chiarita la distinzione tra le specifiche e dirette conseguenze “giuridiche” dell’esito abrogativo e gli “obiettivi politici” dell’iniziativa referendaria».
Tra l’altro sono stati dichiarati inammissibili tre quesiti e altri dei cinque ammessi rischiano di saltare in caso di approvazione della riforma Cartabia.
«Per complesse ragioni che qui non è possibile neppure sintetizzare, sono stati dichiarati inammissibili dalla Corte costituzionale – e dunque non saranno sottoposti al voto – altri tre quesiti che erano stati presentati e che erano probabilmente quelli più “divisivi” per la pubblica opinione. Forse, proprio per questo motivo, si trattava di quesiti che avrebbero potuto accrescere l’interesse dei cittadini nei confronti di questa tornata referendaria, così trascinando verso l’alto la complessiva partecipazione al voto in modo da superare il quorum previsto dalla Costituzione per la validità del referendum. Si trattava, esattamente, dei quesiti sulla disciplina sanzionatoria relativa agli stupefacenti, sull’omicidio del consenziente, e sulla responsabilità civile dei magistrati. Per di più, va ricordato che in questi giorni il Parlamento sta esaminando la cosiddetta “riforma Cartabia” proprio in tema di giustizia: se approvata definitivamente prima del 12 giugno, questa riforma potrebbe impedire lo svolgimento di due dei cinque quesiti, ovvero senz’altro quello relativo alla candidatura dei magistrati al Csm e presumibilmente quello sul passaggio tra la funzione di giudice e quella di pubblico ministero. E’ un elemento di incertezza che potrebbe ulteriormente ridurre la partecipazione al voto».
Quali sono concretamente i cinque quesiti sui quali siamo chiamati ad esprimerci?
«In estrema sintesi questi sono gli oggetti per così dire immediati e diretti dei cinque quesiti su cui i cittadini sono chiamati a pronunciarsi:
a) circa i magistrati che intendono presentare la loro candidatura al Consiglio Superiore della Magistratura, si chiede di cancellare l’obbligo di raccogliere un certo numero di sottoscrizioni;
b) circa la composizione di alcuni organi che decidono sulla valutazione della professionalità dei magistrati, si chiede di cancellare la normativa che impedisce la partecipazione dei cosiddetti membri “non togati”, cioè gli avvocati e i professori universitari;
c) circa la separazione delle funzioni tra i giudici (che esercitano la funzione giudicante) e i pubblici ministeri (cui spetta la funzione requirente, quella cioè della pubblica accusa), si chiede di cancellare la disciplina che attualmente consente, a certe condizioni, di passare più volte da una funzione all’altra;
d) circa la custodia cautelare – la cd. carcerazione preventiva (cioè la restrizione della libertà personale cui si può essere assoggettati prima della condanna definitiva) – si chiede di cancellare la normativa che consente, a certe condizioni, al giudice di imporre tale restrizione della libertà ricorrendo all’ipotesi della possibile “reiterazione del reato” da parte della persona accusata;
e) circa le conseguenze derivanti dalle condanne penali (talora anche non definitive) inflitte ai titolari degli organi elettivi e di governo presenti sia a livello nazionale che territoriale, si chiede di cancellare integralmente il cd. “decreto Severino”, cioè quella normativa che ne fa conseguire, secondo procedure pressoché automatiche, l’incandidabilità, ineleggibilità o la decadenza dalle cariche».
Quali sono gli obiettivi politici di questi 5 quesiti?
«Sempre in estrema sintesi, gli obiettivi politici per così dire impliciti e indiretti dei cinque quesiti sono così definibili:
a) eliminando l’obbligo di raccogliere le sottoscrizioni, si intende ridurre il peso esercitato dalle “correnti” in cui è attualmente articolata la magistratura associata, almeno nel momento della formazione del Consiglio superiore della magistratura;
b) inserendo i “non togati” negli organi competenti sulla valutazione dei magistrati, si intende ridurre l’attuale autoreferenzialità dell’ordine giudiziario;
c) cancellando la normativa che consente i passaggi tra le funzioni dei giudici e dei pubblici ministeri, si intende precludere il reciproco condizionamento tra la magistratura giudicante (i giudici) e quella requirente (i pubblici ministeri) o addirittura avviarsi verso la rigida separazione delle relative carriere;
d) circoscrivendo la discrezionalità dei magistrati nell’applicazione della misura restrittiva della custodia cautelare, si intende accrescere la tutela della libertà personale rispetto ad interventi presuntivamente arbitrari degli organi giurisdizionali;
e) eliminando il “decreto Severino”, si vuole distinguere nettamente la sfera dell’accertamento della responsabilità penale rispetto al rapporto di rappresentanza politica e alle relative e specifiche responsabilità.
In ogni caso, come è dimostrato da quanto è avvenuto in passato, si tratta di obiettivi di ampia portata il cui effettivo perseguimento, qualora gli stessi referendum abrogativi avessero successo, dipenderebbe dalla reazione del Parlamento, del Governo e dei partiti innanzi al voto popolare. Insomma, rispetto ai predetti obiettivi di riforma della giustizia e soprattutto con riferimento all’intenzione complessiva di rideterminare il ruolo dei giudici all’interno dell’intera collettività e nei rapporti di forza con gli altri poteri dello Stato, i referendum possono esercitare una funzione di stimolo e di sollecitazione; alle istituzioni e alle forze che guidano i processi politici spetterà, poi, il compito di trarne le dovute conseguenze».
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