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«Ogni donna uccisa ci ricorda
che qualcosa nella rete
istituzionale non ha funzionato»

L'INTERVISTA - Meri Marziali, già presidente della Commissione regionale Pari Opportunità, interviene sulla piaga dei femminicidi partendo dalla morte di Concetta Marruocco. I dati nella nostra regione

Meri Marziali

di Giorgio Fedeli

L’Italia è tra i primi cinque Paesi in Europa per numero di femminicidi. Sono più di 80 le donne uccise dall’inizio dell’anno e il dato è in continuo aggiornamento. 

«Gli uomini che odiano e uccidono le donne non sopportano la loro libertà perché questa libertà è ciò che mette sottosopra ogni idea di proprietà. L’unico antidoto alla violenza sessuale è l’alfabetizzazione all’amore». Partiamo da questi dati e dalle parole dello psicoanalista Massimo Recalcati per approfondire insieme a Meri Marziali il tema, complesso quanto straziante, della violenza di genere.

Sindaca di Monterubbiano, per 5 anni presidente della Commissione Pari Opportunità della Regione Marche, esperta nel contrasto alle discriminazioni di genere, da marzo 2023 Meri Marziali è anche componente della Direzione Nazionale del Partito Democratico.

Pochi giorni fa uno degli ultimi casi di femminicidio proprio nelle Marche, a Cerreto d’Esi, dove Concetta Marruocco è stata uccisa con 15 coltellate dall’ex marito dal quale si stava separando. Che cosa ha provato alla lettura di questa ennesima violenza?

«Un profondo scoramento, lo confesso. Non è più accettabile contare il numero delle vittime. Dopo tanti anni di impegno su questo tema si lavora a un cambiamento culturale, si promulgano leggi e si realizzano progetti per tutelare le donne ma le resistenze culturali restano fortissime e i femminicidi non si arrestano. Molti passi avanti sono stati fatti ma ogni donna uccisa ci ricorda che qualcosa non ha funzionato nella rete istituzionale che in questo caso avrebbe dovuto proteggere Concetta e sua figlia.  Denunciare vuol dire esporsi, far sapere a colui che perseguita che si è deciso di reagire, e questo in certi casi scatena una rabbia ancora maggiore. Spesso, infatti, il femminicidio è l’ultima tappa di una serie di vessazioni e violenze consumate all’interno delle mura domestiche o comunque di una relazione: tutte situazioni che configurano reati che vanno dai maltrattamenti allo stalking.

La sua esperienza alla guida della commissione regionale Pari Opportunità che cosa le ha lasciato in eredità, sia in termini di conoscenza che di strumenti di prevenzione?

 

«Direi moltissimo. Porto con me i tanti racconti delle vittime ma anche le loro storie di rinascita grazie all’aiuto dei Centri Antiviolenza. La prima lezione che mi hanno insegnato queste donne è che sono tutt’altro che deboli. Possono essere momentaneamente vulnerabili ma è una condizione dettata dal convivere per molti anni dentro relazioni maltrattanti. Prima della denuncia le donne convivono con la violenza domestica per molto tempo (in media quasi dieci anni) a causa di molteplici motivi. Non ultimi la mancanza di autonomia economica e il condizionamento del contesto sociale e culturale in cui sono immerse. Molto spesso la violenza resta sottotraccia perché il contesto particolarmente discriminatorio e la bassa autostima la rendono “naturale” ma non per questo meno dolorosa o pericolosa.  Spesso è l’ambiente in cui si consuma la violenza a ostacolarne una corretta percezione, inducendo le donne ad attribuirvi un valore differente. Anzi, addirittura, a ritenerla più lieve, tollerabile, ordinaria. Ascoltandole mi sono sempre chiesta quanta forza avessero dovuto avere per convivere così a lungo in relazioni familiari pervase da violenza. E quanto erano belle quando ritrovavano la loro forza. Per quanto riguarda prevenzione e interventi, una adeguata protezione della donna vittima di violenza è un elemento imprescindibile affinché le denunce possano avvenire in totale sicurezza. È assolutamente necessario un approfondimento su come sia stato possibile e cosa non abbia funzionato in questo caso con il braccialetto elettronico. È importante comprendere bene le dinamiche perché questo strumento sia valutato e messo nelle condizioni di proteggere, scongiurando un esito tanto drammatico e feroce».

Può indicarci qualche dato?

«Certo. Nel 2021 nella Regione Marche 633 donne si sono rivolte ai Centri Antiviolenza, 180 in più rispetto al 2020 (483). Nell’anno precedente, 2019, i casi erano stati 471.  I dati ci confermano che la violenza procurata dal marito, dal convivente o dall’ex coniuge è la più diffusa in assoluto. In moltissimi casi al dramma della condizione personale si aggiunge quello della tutela dei figli, soprattutto minori, spesso testimoni delle violenze (oltre 500 i figli coinvolti). La donna vittima di violenza ha in 197 casi una età compresa tra i 40 e 49 anni, per altri 172 casi è tra i 30 e 39 anni, 139 sono le vittime tra i 50 e 59 anni e ben 95 tra i 16 e 29 anni. I dati sono del Rapporto annuale della Regione Marche per l’anno 2021 (quello del 2022 sarà in approvazione nel prossimo mese di novembre) e registrano un abbassamento dell’età sia delle vittime che degli autori dei maltrattamenti. Proprio quest’ultimo dato evidenzia anche come alla radice ci sia ancora un groviglio di eredità culturali, o meglio anticulturali, che tocca un modo arcaico e impari di concepire i rapporti tra uomini e donne: modo che sembra resistere all’evoluzione naturale della società. La cultura della prevaricazione e della violenza nasce da una profonda debolezza nel comunicare e nel gestire le proprie emozioni nel momento in cui ci si relaziona con chi, diverso da sé, ci vive accanto».

Parliamo allora del ruolo della Commissione regionale per le Pari Opportunità che ha presieduto…

«Durante l’impegno istituzionale della CrpO abbiamo investito moltissimo per un lavoro nelle scuole, nelle università, tra i cittadini e con le altre istituzioni per produrre quel cambiamento culturale di reale contrapposizione a episodi di violenza. Abbiamo investito molto in quella che viene chiamata prevenzione, cercando di trasmettere ai giovani il rispetto e il valore delle differenze, dando loro strumenti per un’affettività consapevole, per rapportarsi con l’altro. Senza tralasciare il complesso lavoro svolto sul linguaggio. Contenuti che dovrebbero diventare parte integrante del sistema scolastico e di percorsi formativi e di sensibilizzazione per il corpo docente». 

La formalizzazione della rete territoriale antiviolenza della provincia di Fermo, in prefettura, nel 2017

Si ha timore a numerare i femminicidi perché il dato viene aggiornato con un ritmo che toglie il fiato. Qual è secondo lei il ruolo degli amministratori nel contrasto alla violenza di genere?

«Gli amministratori stanno già facendo la loro parte nelle reti territoriali antiviolenza. Uno strumento attraverso cui tutti i servizi preposti alla tutela e al supporto delle donne vittime di violenza siano in costante dialogo tra loro, si conoscano e si riconoscano nelle reciproche specificità, acquisendo la consapevolezza di far parte di un puzzle in cui ognuno mette a disposizione un tassello e in cui tutti insieme possono veramente divenire una rete di protezione. È fondamentale che le istituzioni collaborino in rete per approntare soluzioni possibili e accompagnare tale percorso. Il contrasto alla violenza sulle donne richiede infatti la mobilitazione di una pluralità di strumenti e di attori sociali che affrontino il problema da più punti di vista: giuridico, economico, psicologico, culturale e sociale. Sono molto orgogliosa di aver contribuito, durante il mio mandato di presidente della CrpO, a costruire e formalizzare nel 2017 la rete territoriale antiviolenza della provincia di Fermo in collaborazione con l’allora Prefetto, Mara Di Lullo.  Quel protocollo era stato il punto di arrivo di un anno di lavoro in cui ogni istituzione coinvolta aveva operato per costruire uno strumento importantissimo per il nostro territorio.  Ne vado particolarmente orgogliosa perché durante gli interventi pubblici da Presidente molto spesso mi trovavo a dire alle donne che la violenza domestica non era un fatto privato né un destino ineluttabile e che avrebbero potuto denunciarla rivolgendosi ai Cav. In quelle occasioni mi ero spesso chiesta se dopo la denuncia la donna avrebbe trovato una reale rete di protezione fatta non solo dai Cav ma da tutte le istituzioni, comprese le amministrazioni, e da tutti i servizi pubblici a cui la donna avrebbe potuto affidarsi. Accanto alla rete territoriale, gli amministratori hanno il dovere di organizzare iniziative e progetti che possano portare a una sensibilizzazione sul tema soprattutto coinvolgendo le nuove generazioni. Nel mio Comune abbiamo inaugurato una panchina rossa con frasi elaborate dalle ragazze e dai ragazzi: un’iniziativa simbolica con un messaggio potente che mi rende particolarmente fiera e che ci rammenta ogni giorno che quel messaggio dobbiamo tenerlo vivo proprio per le donne che non hanno più voce».

La formalizzazione della rete territoriale antiviolenza della provincia di Fermo, nel 2017

È evidente che le misure attivate non sono sufficienti ad abbassare i numeri. Insieme all’alfabetizzazione dell’amore che propone Recalcati, di cosa altro c’è bisogno?

«Prima di tutto bisogna riconoscere il problema. Parlare di violenza sulle donne significa innanzitutto far esistere il problema. Sappiamo che il silenzio non è mai neutro e per molto tempo la violenza sulle donne è stato un problema volutamente senza nome. Volutamente perché ci saremmo dovuti interrogare sul sistema culturale patriarcale che ne è l’origine. Quando manca la definizione di un problema si rischia anche di non essere in grado di affrontarlo o di affrontarlo in un modo non corretto: quello che è successo nel nostro Paese. Si è intervenuti esclusivamente sugli effetti senza mettere in prospettiva origini e radici. Se pensiamo agli episodi di cronaca che ci vengono raccontati dai media troviamo sempre una morbosità assoluta per i fatti, per la vita delle vittime che passa sotto una lente di ingrandimento mostrando però un totale disinteresse per le cause. Le norme contro il femminicidio ci sono. Serve applicarle meglio. E ogni istituzione che è parte di quella rete di protezione deve applicarle più e meglio. Da chi prende in carico la denuncia di una donna sino al magistrato che deve adottare i provvedimenti necessari a partire dalle misure restrittive come nel caso di Concetta, a chi deve controllare il funzionamento di quelle misure. Occorrono maggiori risorse da destinare alla rete dei Centri antiviolenza e delle case rifugio, al reddito di libertà che consente alle donne di allontanarsi e di rendersi autonome da relazioni violente nonché al rafforzamento dei percorsi di recupero per gli uomini maltrattanti. Sul tema dei femminicidi bisognerebbe trovare un’unità di intenti di tutte le forza politiche. Il Pd ha più volte dichiarato la sua disponibilità a confrontarsi con la maggioranza proponendo le misure già illustrate dalla segretaria Elly Schlein. Fondamentale è che le misure del governo Meloni non siano misure spot che inseguono solo le tragedie ma che dimostrino finalmente come siano necessari interventi strutturali sulla prevenzione e non solo con risposte di tipo penale». 

 

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